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    O.Z.4
    T-YONG CHUNG
    FABIO STASSI

    1 Dicembre 2014 – 31 Gennaio 2015

    Opere

    FABIO STASSI

    Credetemi: posso entrare e uscire da ogni istante del mio passato e del mio futuro. Il tempo, per me, è una porta girevole, non si chiude mai. A volte mi restituisce delle lettere d’amore, dopo molto tempo, a volte un segno di gesso sull’ardesia.

    Potrei elencarvi simultaneamente tutti i numeri d’arte varia della mia vita. Ma il mio è un finale senza confessioni. È come con le storie degli ubriachi che diventano astemi e non interessano più a nessuno. Un silenzio di visite e di congedi, di schiene definitive, di biglietti dell’autobus e fogli di giornali al posto delle tovaglie, di bicchieri sporchi e incerte consolazioni.

    Ormai sono un pezzo di binario arrugginito, un vecchio orso polare a cui tremano le mani, che guarda il soffitto. Evito sempre di parlare al telefono e mantengo forme di esasperata cortesia verso gli esseri umani. Ma la schiena non smette di farmi male e ho imparato che il momento peggiore per sentirsi soli è l’ora di cena. Posso appena dire, prima che anche i ricordi più belli vadano al tappeto, che l’amore alla fine è un reumatismo, una ferita all’arcata sopraccigliare che non si rimargina. E la vecchiaia un’espropriazione.

    È il tariffario della sopravvivenza. A lungo mi sono sentito come un guardiano delle chiuse. Mi sono difeso dal mio volto che cambiava specchiandomi solo negli stagni, nei muri anneriti dall’acqua piovana, in una stanza con i vetri opachi dove non ci si riconosce mai. Ma come mi disse una volta un amico, sono sempre stato troppo debole e troppo forte insieme per trovare un posto al mondo.  Per questo resto qui, grasso e immusonito, ad ascoltare il suono rauco di una sirena, parallelo all’umidità di questa strada, incapace di correggere il disastro dei miei gesti. Sono solo un uomo che ha conosciuto l’esilio, che ride contro la sfortuna e che vorrebbe trovare il modo di far esplodere il territorio della nostalgia.

    Corteggio ancora tutte le donne che incontro e misuro la mia estraneità annusando la luce grigia del fiume, e quest’aria da epilogo che mi circonda, questo odore di inverno, di pozzanghere marce, di mancanze e di reticenza. Indosso scarpe di vernice che la pioggia non bagna e aspetto che arrivi il momento in cui qualcosa senza valore e senza necessità mi obbligherà a guardare le cose come stanno. Non mi è rimasto che il bordo di un marciapiede da cui assistere allo spettacolo delle mie lacrime che si congelano. Ma è bello raccontare i guai passati, quando non si ha altra compagnia che sé stessi. Si finisce per catalogare la tosse della città, il muggito lontano delle navi da carico in partenza, il motore di un camion di pompieri che torna in caserma.

    In realtà, l’assenza è la mia abitudine principale. Io ho sempre avuto l’impressione di abitare la giacca di un altro. E per anni ho fotografato sale d’aspetto, ringhiere, architravi, steli d’erba secca, le domeniche semideserte, la scia luminosa delle farfalle.

     

    Dicono che sono sempre stato vecchio. E che avevo un appuntamento con il passato che non potevo disertare. Ma certe notti penso che le strade di questo posto siano un tatuaggio, che questa città stessa sia il tatuaggio di un arcipelago dove è incisa la storia di chi la abita, anche la mia, e che da qui il passato lo si può leggere, e lo si può predire. Mi basterebbe recuperare la lingua della mia infanzia, rivedere un canapè dove avevo dormito da bambino, ritrovare l’odore di teatro che avvolgeva mia madre.

     

    Perché sono io, ora, il mio villaggio fantasma. Sono io tutto quello che rimane: il sopravvissuto, il reduce, il tempo sparito. Sono io l’ultima casa, l’ultimo negozio, l’ultimo altare. Il campo vuoto sotto la luna. La gamba avariata. Sono il rumore di ogni cosa che cade per terra. La scatola dei resti. La stanza piena di vestiti, di scarpe, di fotografie. I miei libri. Una bicicletta nichelata, l’odore di minestra che prendeva la cucina, in certi quarti d’ora, un pigiama giallo, un’unghia sporca di nicotina.

     

    Sono io una fede di nozze dentro un cassetto, una bandiera, un capo di biancheria, un paio di occhiali, una candela, un grano di polvere, una federa, una chiave, una macchia di inchiostro, un chiodo, un pezzo degli scacchi, un carillon, una calza da donna. Sono io le ali delle tignole ripiegate allo stesso modo in cui si è ripiegato il tempo dentro di me, con i loro piccoli artigli di insetto irrigiditi contro una tenda per l’angoscia di essersi smarrite.

    Sono l’ultima scatola da aprire, e questo segno di matita azzurra sopra.

     

    E una cicatrice a forma di stella dietro un orecchio.

    ILARIA GIANNI

    Frammenti smembrati e ricomposti di un oggetto lussuoso e familiare sembrano arrampicarsi tra quattro vetrine su strada di via della Penna. Non vi è dubbio che ciò che si ha dinnanzi siano pezzi di una poltrona laccata d’oro stile Luigi XV. Il suo posto nella rappresentazione storica è simbolo di ricchezza e gloria, rimanendo tuttora un’icona di opulenza. La storia dell’arredamento si è sempre sviluppata di pari passo con la storia sociale dell’uomo, determinata dai mutamenti politici ed economici che influenzano il gusto e generano uno stile, una cultura e i costumi di un popolo. Nel tempo oggetti funzionali trasformati in capolavori sono diventati parte della grande narrazione estetica della storia dell’arte, rivelando una coscienza di classe, la trasformazione della ricerca del bello e del funzionale in rapporto alle esigenze primarie, ai progressi e ai capricci dell’uomo. E’ dunque ovvio associare la poltrona Luigi XV a un’epoca, a un assetto sociale e a uno stato mentale. Eppure incastonato negli angusti spazi della vetrina di via della Penna si staglia un oggetto dalla nuova forma scultorea in grado di deviare il significato che solitamente accompagna la seduta nell’immaginario collettivo. Tra le mani di T-yong Chung, la poltrona non solo cambia fisionomia e perde la sua funzione, ma si trasforma in una figura astratta che mette in moto, nella mente dello spettatore, idee riguardanti la memoria, la posizione della storia e il gesto necessario della rielaborazione.

    Il percorso dell’artista coreano è costellato dal frequente recupero di oggetti perduti nel tempo e nello spazio: articoli capaci di mantenere la presenza spettrale della loro storia e al contempo di attivare possibili e molteplici narrazioni. E’ il gesto artistico, lo slittamento di senso prodotto dal processo di trasformazione scultorea a mettere in crisi la natura dell’oggetto, dischiudendone le fondamenta più profonde. Il classicismo della poltrona plasmata da T-yong Chung, rappresenta così una forza dialettica composta da una sovrapposizione di strati temporali e da una serie di narrazioni potenziali. L’artista non intende formulare una semplice critica di una classe sociale, piuttosto utilizza l’oggetto nei termini di ciò che custodisce, mettendolo in scena nel suo stato di rovina. Appropriandosi di un prodotto di una società che lo ha preceduto, lo usa criticamente, sovvertendone il consueto ruolo. Non intende preservare una vita e una storia, ma costruire sulla fragilità politica e sociale inerente l’oggetto-testimone. Un articolo obsoleto, perduta la sua forza primaria, diventa così uno spazio in transizione su cui costruire un nuovo valore critico, più profondo e meno contaminato dalle logiche del sistema.

    Recuperando una posizione centrale in un’esistenza rinnovata, la nuova forma scultorea assunta dalla lussuosa e iconica poltrona investe lo spettatore di un nuovo punto di vista, costringendo la mente a elaborare diversamente le proprie conoscenze e mettere in discussione le categorie assodate. Il passante si trova a confronto con un oggetto simbolico tradotto, all’interno uno spazio-vetrina che perde anche esso la sua ordinaria funzione commerciale, riattivando così la consuetudine dello sguardo e del pensiero.